Non ricordo a mia memoria un luglio più piovoso. Sembra che non si verificasse un’estate altrettanto umida e fredda almeno dagli anni ’70. Una perdita notevole per il turismo e l’economia dello svago all’aperto. Un danno anche per l’agricoltura. Per la fauna e per la flora un po’ di disorientamento: con le cicale che esitano a cantare, i prati che indugiano a seccarsi e a colorare di giallo la tipica estate italiana, abbagliante e caldissima.
Dal punto di vista ambientale le frequenti piogge sono perlopiù positive. Un balsamo che in modo insperato lenisce le piaghe stagionali cui siamo abituati: incendi boschivi, siccità, ondate di calore. L’umidità e le pioggerelline hanno anche regalato al tramonto intense e variopinte sfumature di colori.
Il clima è variabile per sua stessa natura. Secondo i meteorologi le cause di questa estate insolita andrebbero ricercate nelle perturbazioni dello scorso inverno che hanno abbassato oltremodo la temperatura delle acque dell’Atlantico. Inoltre il caldo africano avrebbe avuto un’influenza debole alla nostra latitudine a causa dell’interazione col Monsone indiano (sic).
Vista la molteplicità dei fattori fisici in gioco è ardito asserire che questo luglio così anomalo costituisca una prova ulteriore dell’alterazione del clima in atto su scala mondiale. Nondimeno il dubbio dovrebbe indurre ciascuno a riesaminare il proprio stile di vita. Ricordando sempre che la Terra è la casa in cui abitiamo; che tutte le offese che vi arrechiamo, grandi o piccolissime che siano, si ritorcono immancabilmente a danno di tutti gli essere viventi e di noi stessi.
.Il primo giugno sono stato ad Anguillara Sabazia, città situata sul lago di Bracciano, trenta chilometri a Nord di Roma. La mia nonna paterna menzionava Anguillara quando narrava le drammatiche traversìe vissute in tempo di guerra (1943-1944). Assieme a tre suoi piccoli (tra cui due bambine che sarebbero poi morte di stenti) era stata sfollata a Cesano di Roma. In questa località dell’agro romano i soldati tedeschi avevano attrezzato un campo di concentramento per i civili che erano stati allontanati con la forza dalla Linea Gustav.
L’area di confinamento era recintata e sorvegliata da guardie. Comunque alcuni (aspettando il momento opportuno), riuscivano a guadagnare l’uscita attraverso una fenditura. Di lì sciamavano nei dintorni in cerca di qualcosa da mangiare; poi rientravano di nascosto. Tra queste persone, che gli abitanti del posto chiamavano “quelli di Cassino“, c’era mia nonna Domenica (1915). Lasciando mio zio Angelo (di 4 anni) ad aspettarlo nel campo e portando con sé solo la più piccola nata da pochi mesi, nonna Domenica percorreva 5-6 chilometri fino ad Anguillara, dove trovava un lago con “tantissima acqua“, all’ingresso del paese “una grande porta“, quindi “una salita che portava ad una chiesa“. Raccontava, non riuscendo a farlo mai senza piangere, che le genti del luogo si intenerivano alla vista di lei con la figlioletta e non si trattenevano da gesti generosi, facendola entrare in casa senza diffidenza.
Una volta, durante una delle sortite dal campo di Cesano, stava attraversando un tratto di bosco solitario, quando sopraggiunse un uomo a cavallo. Sentì l’imbarazzo della propria condizione, forse ebbe anche timore che lo sconosciuto potesse farle del male. Ma l’uomo, senza scendere dalla sella e senza avvicinarsi troppo, in guisa d’un cavaliere d’altri tempi, tirò fuori delle monete e glie le gettò a terra, prima di galoppare via.
In quei territori, a 150 km dal fronte, il conflitto sembrava abbastanza lontano e la vita proseguiva in modo relativamente tranquillo. L’economia rurale si ripeteva nel suo ciclico corso, i beni di prima necessità non scarseggiavano. Comunque, con le persone del posto mia nonna poteva indugiare nel racconto di qualche doloroso episodio che aveva vissuto a Coreno Ausonio: spiegare che fino a poco tempo prima anche lei coltivava terreni e allevava animali, ma aveva visto venire meno tutti i suoi mezzi di sostentamento a causa dei disordini della guerra, dei bombardamenti, delle razzìe dei militari.
Attraversata la Porta dell’Orologio, percorsa la stessa salita che è rimasta scolpita nella mente di mia nonna, con i miei familiari giungiamo dinanzi alla Chiesa della Collegiata. L’edificio religioso, di ricostruzione settecentesca, sovrasta la parte più antica di Anguillara. Nello slargo attiguo alla terrazza che affaccia sul lago se ne sta seduto a riposare il signor Alfonso. Non c’è persona di passaggio (a piedi, in auto o in motorino), che non gli rivolga un saluto. Lui è nato poco dopo la guerra, ma racconta che sua madre (morta da circa 8 anni) non aveva mai smesso di parlargli di quel tragico periodo e degli “sfollati di Cassino”. In particolare continuava a ricordarsi di una donna che giungeva in paese con una piccola creatura in braccio e che chiedeva aiuto con un certo imbarazzo. Prevedendo gli orari del suo arrivo, sua madre aveva premura di farle trovare del latte appena bollito, così che non si guastasse durante il cammino di ritorno. Un particolare che raccontava anche mia nonna! Quando sente nominare il “cavaliere”, Alfonso quasi sobbalza. Ne indica la casa persino. Si trattava di un signore benestante, morto da pochi anni, che era effettivamente noto per il suo spirito magnanimo.
Negli anni del dopoguerra, mentre la società italiana diventava via via più opulenta ed individualista, mia nonna si è portata nel cuore l’umanità di quei giorni in cui la propria vita e quella dei suoi cari dipendeva dalla generosità degli altri. Così, almeno finché una malattia non l’ha privata del senno, ogni volta che una questuante bussava alla sua porta, non aveva importanza chi fosse e se meritasse davvero un’offerta: la faceva entrare in casa e le consegnava, quasi con devozione, una bottiglia di buon olio d’oliva che teneva sempre da parte, come qualcosa di prezioso.
.“Together, Further and Faster” ovvero “Insieme, più lontano e più velocemente”, questo il motto della “Headquarters Rapid Reaction Corps”, una struttura di comando specializzata in operazioni via terra cui aderiscono le forze armate di 13 nazioni dell’Unione Europea e della Nato. Il suo quartier generale si trova in una cittadella fortificata nei pressi di Lille, nel Nord della Francia, dove risiedono alcune centinaia di militari. Nella mattina di martedì 18 giugno circa 35 di essi (di nazionalità francese, belga, tedesca, spagnola, danese, inglese) hanno raggiunto la piazza di Coreno Ausonio accompagnati dai Carabinieri di Ausonia. Dopo una breve sosta in Municipio, dove una delegazione è stata accolta dal sindaco Domenico Corte, dal vice sindaco Francesco Lavalle e dall’assessore Domenico Di Bello, i militari hanno proseguito verso la montagna.
Nei pressi del monumento per la pace di Marinaranne i partecipanti al corso, cui erano già state fornite nozioni di tipo storico, hanno avuto modo di constatare dal vivo l’esatta orografia del territorio. Il programma dell’esercitazione è stato somministrato in lingua inglese e ha consentito agli allievi, mappe alla mano, di ripercorrere la dinamica bellica che ha portato allo sfondamento della linea difensiva apprestata sul Garigliano e alla conquista del monte Maio. Il Sindaco e il neodelegato al turismo Gianfranco Onairda hanno salutato gli ospiti donando loro delle copie della “Carta dei sentieri lungo la linea Gustav” e del libro “Racconti di Guerra” di Gabriel Ruggiero. Alle tredici, proprio mentre dei tuoni annunciavano un imminente acquazzone, i militari sono ripartiti per Venafro (Is), dove era prevista una cerimonia. Una visita insolita, che può farci riflettere, una volta di più, su come le montagne di Coreno, associando al valore naturale-paesaggistico anche quello storico-didattico, possano attrarre persone di lingua e culture diverse.
[Articolo pubblicato sul n. 109 del trimestrale di vita e cultura corenese “La Serra”]
.Torno al Solarxpo, il più importante evento italiano dedicato al mondo delle energie rinnovabili, dopo tre anni. Nel frattempo la manifestazione si è spostata da Verona a Milano, ma non è questa la novità più significativa. Mentre vago tra i vari settori mi avvicina un trentenne alla ricerca di software di progettazione e mi chiede: “E’ tutta qui la fiera?”. L’area espositiva occupa a malapena un padiglione. Gli espositori sono passati da circa 1.400 di tre anni fa a poco più di 200 di questa edizione. Alla fine dei tre giorni (7-9 maggio) si conteranno 14.200 visitatori contro i quasi 72.000 del 2011. Comunque per il direttore scientifico della manifestazione -Luca Zingale- si è registrata “un’affluenza significativa, per di più quest’anno particolarmente profilata dal punto di vista professionale; un chiaro segnale della fiducia che il mercato interno stia ripartendo”.
Per raggiungere la fiera dalla Stazione centrale di Milano occorre prendere due linee metro. I pendolari milanesi hanno fretta e si muovono agevolmente nei cunicoli sotterranei di smistamento, ma le indicazioni segnaletiche non sono sempre all’altezza del flusso di persone. Un aspetto che mi stupisce è la diffusione di questuanti, accattoni e semi-infermi vari. La metropolitana di Milano è presidiata da un’ostentazione di invalidità di ogni tipo indegna di un Paese civile e della città italiana in cui, come ricordava Montanelli, si è formato il primo nugolo di borghesia liberale. Comunque, la struttura fieristica di Milano Rho si presenta architettonicamente suggestiva: un corridoio sopraelevato, protetto da un reticolo di vetro, sfiora avveniristici insetti metallici che tengono le zampe a bagno in un velo d’acqua.
Uno dei reparti che attira la mia attenzione è quello della IDM Energiesysteme GmbH, azienda austriaca specializzata nella costruzione di pompe di calore geotermiche. Si tratta di dispositivi che consentono di estrarre energia dal terreno per mezzo di sonde geotermiche ed un circuito analogo (ed inverso) a quello del frigorifero. In effetti il frigorifero preleva il calore dagli alimenti e lo riversa (attraverso la serpentina esterna) nella stanza in cui si trova. La pompa di calore preleva il calore dal terreno (più o meno profondo) e lo diffonde all’interno dell’abitazione. Metodi di diffusione del calore a parete o a pavimento (purché ben progettati) possono rendere il sistema energeticamente molto efficiente e garantire un ambiente dal clima molto confortevole. L’associazione con una fonte rinnovabile di energia elettrica (ad esempio fotovoltaica) può rendere la casa ad “emissioni zero”, ovvero a basso impatto in termini di emissioni di anidride carbonica.
Allo stand PV Cycle mi spiegano i servizi offerti da questa associazione fondata nel 2007 ed oggi leader in Europa per la gestione ed il riciclo dei moduli fotovoltaici. Da febbraio di quest’anno la raccolta, il trasporto, il riciclo dei moduli fotovoltaici a fine vita sono regolamentati dalla Direttiva europea 2012/19/UE che li include tra i cosiddetti RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche) e stabilisce il principio della “responsabilità estesa al produttore”. In base a tale principio chi produce i moduli fotovoltaici o li introduce commercialmente nell’Unione Europea deve anche preoccuparsi di finanziare ed organizzare la gestione dei rifiuti che ne derivano. L’esigenza di smaltimento aumenterà nei prossimi 10-20 anni, quando giungeranno a fine vita le enormi quantità di moduli messe in esercizio soprattutto negli ultimi 5-10 anni. E tuttavia già oggi una piccola percentuale necessita di essere sostituita per avaria o danneggiamento. Un modulo fotovoltaico è costituito da vetro (80%), metallo (10%) e semiconduttori (1-2%). Buona parte di questi elementi possono essere già riciclati, ma sotto questo aspetto si può ragionevolmente prevedere un aumento di efficienza nel prossimo futuro.
Per quanto riguarda il solare termodinamico ho trovato curioso e degno di interesse il collettore proposto dalla società Sferasol di Torino. E’ costituito da una calotta trasparente (in grado quindi di generare una sorta di “effetto serra”) che racchiude una sfera di acciaio verniciato di nero. La sfera assorbe l’energia del sole e una serpentina interna consente il riscaldamento uniforme di circa 150 litri d’acqua. Il rendimento del dispositivo, di costruzione compatta, facilmente spostabile e non privo di pregio estetico, è verosimilmente più basso di quello dei collettori tradizionali di tipo piano. Tuttavia a differenza di questi non è influenzato dall’orientamento (rispetto al sole) e riesce ad assorbire una maggiore aliquota di irraggiamento riflesso e diffuso (significativo nelle giornate nuvolose).
L’attenzione di molti visitatori era anche catturata da un captatore del diametro di circa 5 metri i cui specchi sembravano i petali distesi d’un fiore. I suoi spicchi in alluminio (in grado di richiudersi in caso di maltempo) sono orientati in modo da convergere la radiazione solare nel punto di fuoco della parabola, dove viene surriscaldato un fluido. Il dispositivo è di tipo cogenerativo: per la società Innova di Pescara, che lo realizza, si ottiene una potenza termica di picco di 3 kWp e allo stesso tempo una potenza elettrica (tramite un motore stirling) di 1 kWp.
Fino a non molti anni fa il governo italiano ci spiegava che le centrali nucleari erano indispensabili per sopperire al fabbisogno energetico dell’Italia e che le cosiddette fonti di energia rinnovabile avrebbero avuto un ruolo solo residuale. Nel 2013, a fronte di una domanda di 317 TWh, la produzione elettrica nazionale è stata di 277 TWh. Di questi ben 107 TWh (più di un terzo della domanda) sono stati prodotti a partire da fonti energetiche rinnovabili e “pulite”. Tale traguardo è stato raggiunto grazie all’installazione, in pochi anni, di circa 550.000 impianti fotovoltaici. Nel 2013 con i suoi 22,1 TWh il fotovoltaico ha coperto il 7% della domanda nazionale (un primato mondiale!) e l’8% della produzione elettrica italiana. Negli ultimi anni, anche sotto la spinta delle lobby del petrolio, gli incentivi sono stati drasticamente ridotti e questo potrebbe essere uno dei motivi, collaterali alla crisi economica, che hanno determinato il brusco ridimensionamento della manifestazione fieristica. Nondimeno il settore delle energie rinnovabili e in particolare dell’energia fotovoltaica, col progressivo abbassamento dei costi di fabbricazione e l’ulteriore sviluppo di sistemi di accumulo, sembra poter contare su un futuro più promettente persino, di quello che si poteva immaginare non molti anni fa.
Si legga anche: Solarexpo 2008 Solarexpo 2011
.Lo scorso 8 maggio sono stato alla XXIX edizione del Samoter (Salone internazionale delle macchine da costruzione e movimento terra). La manifestazione fieristica, inaugurata nel 1964, è giunta al 50° anniversario. Dal 1993 si tiene ogni tre anni, dandosi il turno con quella di due grandi Paesi europei: Germania e Francia. Comunque, solo un lustro fa sarebbe stato difficile immaginare che il traguardo del mezzo secolo sarebbe stato vissuto con tono minore di questo.
Quando scendono dal bus navetta, i visitatori rimangono disorientati. C’è la solita grande insegna sull’edificio Palaexpo, ma dove si entra? Dopo qualche tentativo ci si accorge che l’ingresso principale è stato defilato lateralmente. Quando si apre la mappa distribuita in prossimità dei tornelli ci si accorge che i padiglioni utilizzati -un tempo una decina- ora sono tre, di cui uno proveniente in realtà da “Asphaltica“, manifestazione (nata nel 2003) dedicata alle tecnologie di costruzione e manutenzione stradale. Il colosso multinazionale “Caterpillar” che nel 2008 schierava subito all’ingresso un plotone di grandi macchine mettendo in campo anche un accattivante spettacolo dimostrativo, in questa occasione semplicemente era assente. Nonostante il ridimensionamento, nell’edizione 2014 erano presenti 445 espositori, di cui 106 stranieri provenienti da 27 Paesi. Alla fine dei quattro giorni si sono contati oltre 40.000 visitatori (sei anni fa si superarono le 106.000 persone; appena tre anni fa i visitatori furono 98.000).
L’ottimismo sottende sempre tali eventi, ma nella conferenza di apertura non si è potuto fare a meno di soffermarsi sulla sconfortante crisi degli ultimi anni. Qualche relatore osservava la discrasia che si sta instaurando con i Paesi emergenti. La tendenza alla delocalizzazione della produzione sarebbe favorita non solo dal fatto che in queste nazioni in via di sviluppo si concentra ormai la gran parte della domanda di macchine, ma anche dalle regole sempre più restrittive imposte in Europa.
Il mondo delle macchine è un efficace indicatore dell’andamento economico e delle prospettive a venire. Innanzitutto perché dove c’è una macchina, là c’è un cantiere. Poi perché l’acquisto di una macchina rappresenta di solito un investimento di lungo periodo e quindi è indice di un’aspettativa positiva per il futuro. Si potrebbe aggiungere che una nuova macchina significa quasi sempre un aumento della produttività, un miglioramento della sicurezza sul lavoro, una diminuzione dei consumi e degli impatti ambientali.
In realtà motivi di speranza, come ha spiegato anche Luca Turri, vice-presidente di Federcostruzioni, non mancherebbero: nell’edilizia potremmo essere agli albori del VII ciclo di espansione. Per quanto riguarda in generale le macchine, nel primo quadrimestre del 2014, rispetto allo stesso periodo del 2013, si è registrato in Italia un incremento del 21,6% delle vendite. Un timido segnale positivo dovuto all’aumento delle esportazioni, in particolare verso l’Europa dell’Est (+72%) e l’Asia (+58%). Il mercato interno, che negli ultimi sei anni ha visto una riduzione della domanda molto brusca (nei vari settori, dal 50% all’ 80%!) continua a languire. Uno stato di cose che induce ad un interrogativo: gli imprenditori e gli industrialotti che per oltre un decennio si sono creduti più furbi nel sostenere Berlusconi, confideranno ora in Renzi, la foglia di fico della stessa casta al potere, corrotta ed incapace, che ha succhiato il sangue all’economia reale dell’Italia sino ad oggi?
In un convegno si parla della nuova A35 Brescia-Bergamo-Milano, un nuovo asse stradale di circa 67 km. L’opera sarebbe stata realizzata in pochi anni adottando i migliori accorgimenti sia per rendere la guida confortevole che per mitigare le criticità ambientali. L’intero tracciato dovrebbe entrare in esercizio prima dell’estate. I lavori hanno richiesto lo spostamento di 3,6 milioni di metri cubi di terra e rocce da scavo e per la prima volta il monitoraggio dei volumi sarebbe avvenuto facendo uso di dispositivi laser a scansione, scongiurando così l’impiego fraudolento di materiali non autorizzati o inquinanti.
Degno di attenzione uno stand dedicato alla promozione della tecnologia denominata “trenchless” o “no-dig“. Si tratta di una metodologia di posa in opera di reti di sottoservizi che fa a meno degli scavi a cielo aperto e che utilizza sostanzialmente delle sonde che perforano il sottosuolo in modo sub-orizzontale. I costi e il know-how necessario tendono ad essere più elevati rispetto ai metodi tradizionali, ma alcuni vantaggi (la scarsa invasività, la riduzione del danneggiamento di opere pre-esistenti, la riduzione di impatti sociali e ambientali) ne fanno una tecnologia già consolidata in altri Paesi.
Si legga anche: Samoter 2008 Samoter 2011
.Nelle scienze esatte spesso capita che più una formula è semplice, più si rivela efficace, utile, rivoluzionaria. Similmente, un progetto dall’idea elementare e dal costo contenuto potrà annoverarsi probabilmente tra le iniziative più fruttifere e virtuose portate a termine da un’amministrazione locale negli ultimi decenni. Con la collaborazione della sezione di Esperia del C.A.I. (Club Alpino Italiano), il generoso contributo di un drappello di volontari nonché la dedizione instancabile del giovane Gianfranco Onairda (delegato comunale all’organizzazione di eventi e manifestazioni) si è lavorato alla promozione dei sentieri storici che insistono nel territorio collinare e montano di Coreno Ausonio (Fr). I possibili tracciati, (per lo più antiche mulattiere in pietra), sono stati perlustrati più volte al fine di individuarne i migliori. I percorsi scelti sono stati ripuliti da arbusti e sterpaglie, codificati e georefenziati con un navigatore GPS, infine regolarmente contrassegnati con il segno bianco/rosso del C.A.I. (autorizzato a svolgere tale attività dalla Legge 776/1985).
Il progetto ha previsto la stampa di una brochure divulgativa che riporta, oltre ad informazioni storico-naturalistiche sul territorio e sui luoghi d’interesse, la mappa di tutti gli itinerari presi in considerazione. I percorsi censiti entreranno a far parte del Catasto regionale dei sentieri del Lazio che sarà reso disponibile su internet e che favorirà nell’area degli Aurunci Orientali (Monti Vescini) un turismo di tipo escursionistico.
Nel giorno di pasquetta ho avuto modo di sperimentare l’efficacia degli interventi realizzati. Dai pressi dell’acquedotto comunale, non lontano dal centro del paese, con una piccola comitiva ho intrapreso il cammino che abbraccia ad anello il monte Rinchiuso (778 m) e che coinvolge parte dei sentieri 973, 973B e 975. L’itinerario, di circa 8 chilometri, si snoda fra 380 m e 750 m di altitudine. Nel 2004, con un paio di amici dell’università, tentai un’escursione simile nella stessa zona. In quella circostanza smarrii una mulattiera e ci ritrovammo, nel giorno del solstizio d’estate, sotto un sole cocente, sul clivo ripido esposto a Sud che sovrasta il paese, in mezzo alla vegetazione alta di ampelodesma tenax, una pianta cespugliosa dalle foglie taglienti.
In questa escursione non ho avuto difficoltà di orientamento. Il primo tratto del percorso (sentiero 973) è ripido ma panoramico. Verso Sud-Ovest, oltre il paese che man mano si allontana, si staglia la linea di costa del mar Tirreno. Verso Nord-Ovest, oltre la gariga mediterranea tipica dei dintorni, la vista può indugiare sulla parete verticale del monte Fammera (1166 m) e sull’amena forma piramidale del monte D’Oro (828 m). Salendo ancora la pendenza del cammino si attenua. Soprattutto il paesaggio diviene meno spoglio, gli alberi di specie diverse si infittiscono e la natura esplode in tutta la sua straordinaria biodiversità.
Proseguendo sul sentiero 973B ci si addentra sul versante settentrionale del monte Rinchiuso fino ad attraversare una zona particolarmente umida, dalle infinite sfumature di verde, colonizzata da un intreccio di carpini bianchi, ricca di muschio e disseminata di profumati ciclamini. A 675 m s.l.m. si raggiunge la “casella della Matthia“. Il sito fu teatro di una tragica esecuzione durante la II guerra mondiale: il 12 aprile 1944 alcuni civili furono uccisi per rappresaglia da soldati tedeschi in quanto avevano dato ricovero ad un aviatore americano che si era paracadutato da un aereo abbattuto.
Più avanti il sentiero si confonde con una pista realizzata dai taglialegna negli anni ’80 e che, assieme ai tralicci dell’alta tensione,(installati nello stesso periodo), ha un po’ compromesso l’originario aspetto “selvaggio” e incontaminato dei luoghi. A partire da circa 720 m s.l.m. si raggiungono le Chianare, un’area di notevole pregio antropologico e naturalistico. Le sue valli si incuneano tra la sommità del Monte Rinchiuso e le pendici meridionali del Monte Maio (940 m). Qui il paesaggio è colonizzato diffusamente dai lecci (Quercus ilex), alberi sempreverdi il cui apparato radicale riesce a insinuarsi in profondità tra i sassi. Con la loro fitta chioma assicurano un microclima relativamente fresco anche nei giorni più caldi dell’estate. Il bivio con il sentiero che porta sulla sommità del monte Maio è facilmente riconoscibile. Più avanti una carrareccia fende ripida il costone che porta alla strada bianca carrabile, a sua volta rilevata come sentiero n. 975 per mountain bike. Di qui la stanchezza si fa sentire, ma la discesa è ormai agevole, fino al paese.
.Alatri è un’accogliente città di palazzi storici, edifici religiosi e fontane monumentali. Il centro urbano, che vanta origini antichissime, è il terzo della Ciociaria per numero di abitanti (dopo Frosinone e Cassino). Il fastigio del borgo è l’acropoli, caratterizzata da una cintura di mura megalitiche che abbracciano la sommità della collina su cui la città è adagiata.
L’inizio della costruzione delle mura viene fatto risalire al VII secolo a.E.V.. I massi – anche di ragguardevoli dimensioni- levigati e sapientemente incastrati a secco, formano una barriera spessa e possente. Un tempo, oltre ad avere funzioni di protezione, delimitavano l’area sacra di un tempio pagano. Dal centro della città l’accesso più rapido al sito è quello attraverso la cosiddetta Porta minore (di solito chiusa però da un cancelletto). L’accesso principale è la Porta maggiore, che si trova quasi agli antipodi del quadrilatero murario. Affaccia su una stradina modesta che costeggia alcune abitazioni private.
Rivolta a Sud, con le sue umili pietre ingrigite e l’enorme architrave, la Porta maggiore conserva intatta l’antica sembianza austera e solenne. Accanto all’ingresso, sulla sinistra, sono presenti tre grandi nicchie, apparentemente riservate a qualche culto arcaico. Sulla destra, poco lontano, c’è il cosiddetto “Pizzale“, uno spigolo alto delle mura. Dalla sua sommità si possono mirare i monti Ernici e il paesaggio declinante verso la piana di Tecchiena. Sulle pendici di una collina si può individuare in lontananza il centro abitato di Veroli.
Proseguendo il cammino sull’Acropoli, sul lato opposto (Nord) la vista sovrasta la gran parte dei tetti e dei campanili del centro storico di Alatri. La sensazione è che da quell’altura si stia costeggiando una “piccola Siena”. Il luogo è reso ameno dalle pietre invecchiate dal tempo, ma la passeggiata è resa incantevole dalla presenza degli alberi e del verde. Con il fusto eretto e regolare in mezzo al primo tappeto di foglie, spiccano i viali di tiglio. In un tiepido giorno di autunno, le loro chiome tendono ormai a spogliarsi e a colorarsi di un luminoso giallo.
.“Non véco mancu Fammera” (trad.: Non vedo neanche Fammera) si dice talvolta a Coreno Ausonio, quando si ritiene di non avere neanche il tempo di alzare lo sguardo da terra o dalle proprie occupazioni. Il modo di dire diviene più significativo se si pensa che i contadini della zona solevano gettare un’occhiata sulla “pietra di Fammera”: un masso incastonato ai piedi di una china ripida del monte. La pietra segnava il mezzogiorno quando era raggiunta dall’ombra di una guglia soprastante.
Fammera appartiene al gruppo montuoso degli Aurunci occidentali, nel Lazio meridionale. La montagna risalta per la parete scoscesa che incombe su Selvacava (frazione di Ausonia), troneggia sulla piana dell’ Ausente e guarda dritta verso gli Aurunci orientali e lo stesso paese di Coreno, sito sulla collina antistante, alle pendici del monte Maio. Fammera ricade per buona parte all’interno del Parco Regionale dei Monti Aurunci, istituito nel 1997. La caratteristica parete, che dal punto di vista geologico rappresenta una linea di faglia (la disgiunzione di 2000 metri è quella di maggior rigetto verticale di tutti gli Aurunci) è censita come area “SIC” ed è stata inclusa quindi nella rete europea dei Siti di Importanza Comunitaria da preservare a tutela degli habitat e della biodiversità.
Il poeta corenese Mariano Coreno, emigrato in Australia negli anni ’50, osserva: “E non importa dove vado, dove mi trovo: Fammera mi segue ovunque con la sua mitica bellezza.” Dal canto suo, l’umanista di Ausonia Elisio Calenzio (1430-1503) scriveva negli Opuscola: “Vito, a te piace il Fammera; anche noi ammiriamo il monte e le sue pietre, precipitate per mano non umana.”
Uno dei percorsi consigliati per raggiungere la vetta è quello che parte dalla “Valle Gaetana” nel territorio di Spigno Saturnia (Lt): ad un primo tratto facile da percorrere ne segue però uno ripido e accidentato che sfiora e costeggia lo strapiombo e alcuni burroni. Il modo probabilmente più agevole di raggiungere la vetta è invece quello di partire da uno stretto pianoro sito sul retro del rilievo, nei pressi di masserie sparse che vivono delle risorse del luogo (legname, allevamento, agricoltura). Oggi dalla Rocca di Esperia vi arriva una stradina stretta e a tratti tortuosa, ma facilmente carrabile. Pare che fino agli anni ’70-’80 esistesse soltanto una mulattiera e che solo intorno al 2000 le ultime abitazioni siano state servite dalla rete elettrica nazionale.
Su questo versante insiste un sentiero che è stato contrassegnato di recente e che si inerpica sul monte con una pendenza moderata. Esso necessiterebbe però di interventi migliorativi e di manutenzione: non poche pietre sciolte intralciano il passo e possono causare una perdita di equilibrio; inoltre andrebbero rimossi i diversi alberi caduti a seguito della nevicata del febbraio 2012. Sarebbe opportuno che l’Ente parco se ne preoccupasse quanto prima, perché il percorso, sfiorato dal sole del mattino, attraversa cornici naturali di incomparabile bellezza che meritano di essere alla portata di tutti. Il patrimonio boschivo è molto vario: oltre alle macchie di pino messe a dimora nel dopoguerra (ormai ben consolidate), si incontrano aceri, carpini, frassini, lecci, querce e castagni; pietraie colonizzate dall’erica e dalla salvia lasciano il passo a fitti boschi di conifere altissime.
Man mano che si sale, lo sguardo spazia sempre meglio sulle valli e sui clivi contrapposti dei monti interni, tra cui il grande Petrella, ed in parte verso il mare. Ma è quando si arriva sulla cresta, dopo circa un’ora e mezzo di cammino senza affanno, che si apre un panorama mozzafiato. Sulla vetta da pochi anni è stata ancorata una croce di legno e se ne può cogliere il contributo scenografico alla suggestione del sito. Eppure questi luoghi lontani dalle ansie quotidiane e dalle beghe mondane andrebbero lasciati forse alla loro pace. Anche un piccolo manufatto rischia di violare goffamente ciò che la natura ha armoniosamente plasmato in un tempo smisurato. Ma non è il momento di indugiare sulle piccinerie umane: tra le pietre consumate dal vento e dall’acqua, vicino ai frassini rossi d’autunno, ai lecci verdi che sfidano vertiginosi dirupi, è il momento di rimirare un pezzo di Terra. Accanto alle nuvole.
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Il Monte Maio (940 m).
Gli Aurunci sono un gruppo montuoso sito nel Lazio meridionale. L’insieme confina a Nord con i Monti Ausoni, a Est con la valle del Liri, a Sud-Ovest con il mar Tirreno ed il fiume Garigliano. Dal punto di vista geologico si tratta di un massiccio calcareo costituito da rocce friabili, ove spiccano volumi compatti in prossimità del mare di Gaeta e lungo le pendici del monte Fammera (1166 m). Alle dorsali principali, come quella che contiene la cima più alta del monte Petrella (1533 m) si affiancano cime minori e separate.
Tra queste, nell’estremo Sud, il comprensorio degli “Aurunci orientali“, la cui montagna più alta è il monte Maio (940 m). La vetta segna anche il confine tra i comuni di Coreno Ausonio e di Vallemaio, in provincia di Frosinone. Per l’orografia della nostra penisola appenninica non rappresenta un’altura particolarmente significativa.
Eppure, svettando isolato, a poche decine di chilometri dal mare, il monte Maio apre agli escursionisti potenzialmente un panorama straordinario: ruotando a 360 gradi si possono scorgere via via gli Aurunci occidentali (il Monte d’Oro della vicina Esperia, dalla tipica cima appuntita, il Monte Fammera, dalla caratteristica parete rocciosa, l’imponente monte Petrella, il monte Redentore, che guarda verso il mare); il golfo del Sud pontino con il curioso promontorio della città di Gaeta (una “balena” che insegue una “nave”); il mar Tirreno con le piccole isole di Santo Stefano e di Ventotene; il Monte Epomeo di Ischia; il Monte Massico e la Rocca Monfina (un vulcano spento) poco oltre il fiume Garigliano, in provincia di Caserta; il Vesuvio; il Matese; i Monti della Meta; la piana di Cassino dominata dal colle di Montecassino (520 m); più lontano i monti Simbruini.
Non sorprende che il monte Maio costituisse strategicamente uno dei più importanti punti di osservazione dell’artiglieria tedesca durante la seconda guerra mondiale. Il confine della linea Gustav (la fortificazione approntata dai tedeschi nell’autunno 1943 contro l’avanzata delle truppe alleate) correva pochi chilometri più a Sud. Ancora oggi è possibile rinvenire le trincee e gli appostamenti che furono scavati allora.
L’assalto decisivo degli alleati venne scagliato nella notte tra l’11 e il 12 maggio 1944. Lo sfondamento della linea difensiva avvenne in questo settore il 14 maggio per mezzo delle truppe marocchine (i goumier) sotto il comando del generale Juin. Il filmato in bianco e nero ripreso da un aereo, di una bandiera francese che sventola sulla vetta del monte Maio, è tra le testimonianze più suggestive che mi è capitato di vedere sul conflitto che sconvolse questi luoghi. Nel 1994, a 50 anni da quei giorni terribili e cruciali, in località “Marinaranne” è stata eretta una stele in pietra in ricordo di tutte le vittime della guerra.
Sotto l’aspetto naturalistico, il Maio rappresenta bene le peculiarità proprie dei monti Aurunci, caratterizzati da una spiccata varietà di suolo, di paesaggio e di specie vegetali. Il clima tende ad essere freddo e ventoso in inverno, arido e siccitoso in estate. Ma basta una piccola rupe di massi, un crinale, un impluvio protetto dalla vegetazione, perché si instauri un microclima un po’ diverso. In genere si tende a considerare di valore inestimabile le grandissime distese di boschi tipiche di regioni più interne, e senza dubbio vanno protette per la loro funzione di polmone verde dell’Italia. Ma dal punto di vista ecologico rischiano di costituire aree “monotone”. I dintorni del monte Maio hanno il pregio della varietà e della biodiversità. I terrazzamenti di muri a secco realizzati da avi laboriosi e sapienti per coltivare gli ulivi lasciano il posto a pascoli impervi punteggiati di querce che si abbarbicano talvolta su terreni scoscesi, oppure a boschi fittissimi di specie arboree diverse, a lecceti densi sparsi tra gli affioramenti di rocce, a prati bassi impreziositi da piccoli fiori che spuntano fra le pietre o da erbe aromatiche. Nell’aria inaspettati profumi, d’origano o di timo.
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